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La mostra si propone di illustrare una selezione significativa di documenti che ricostruiscono la figura del marchese Carlo Alfieri di Sostegno e gli avvenimenti che portarono nel 1875 alla fondazione della Scuola di Scienze sociali.
Il materiale proviene in massima parte dal Fondo Alfieri oggi conservato presso la Biblioteca di Scienze sociali dell’Università di Firenze per tramite dell’Istituto Cesare Alfieri e, in parte minore, dalla Presidenza della Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” che lo ha messo generosamente a disposizione.
Rien n'est besoin d'espérer pour entreprendre, ni de réussir pour persévérer
(Guglielmo d'Orange)
Carlo Alfieri di Sostegno, nato a Torino il 30 settembre 1827 dal marchese Cesare e dalla contessa Luisa Irene Costa della Trinità, fu tenuto a battesimo dal principe Carlo Alberto e dalla principessa Maria Teresa di Savoia Carignano.
Discendente della tradizione nobiliare degli Alfieri che da Vittorio e poi da Carlo Emanuele giunge fino a Cesare, ministro del Regno e firmatario dello Statuto Albertino, incarnò il tipo più perfetto e sincero di conservatore liberale .
La famiglia di origine, gli intellettuali e i politici piemontesi che frequentava, esercitarono su di lui una profonda e durevole influenza, indirizzandolo inevitabilmente alla vita politica.
Entrò presto in contatto con il Cavour suo maestro e guida negli studi, di cui sposò in seconde nozze la nipote Giuseppina.
Nello stesso periodo compì anche alcuni viaggi all'estero, in Francia, dove si recò più volte, e in Inghilterra. Dal 1857 al 1867 fu deputato, prima nel collegio di Alba, poi in quelli di Caluso, di Aosta e di Portomaurizio. Nel 1870 fu poi nominato senatore e ricoprì anche la carica di vicepresidente del Senato.
Si oppose al modello di stato centralista percepito come fondamentalmente illiberale e non funzionale e sostenne sempre con vigore che un'aristocrazia responsabile e preparata dovesse costituire la nuova classe politica dirigente dello stato.
Così come in politica interna rimase tenacemente fedele alla libertà, al rispetto della legge e alla soppressione di ogni arbitrio, nella politica sociale mantenne sempre una fiducia incrollabile nei confronti dell’educazione civile come preparazione alla vita consapevole.
Quando morì, il 18 dicembre 1897, nella Firenze che tanto aveva amato e che non aveva mai più abbandonato, l'ideale di società alla cui costituzione si era tenacemente dedicato si era ormai dissolto.
Gli sopravvive per sempre la Scuola, l'espressione più alta, più feconda e più sincera di tutti i suoi convincimenti di uomo, di intellettuale e di politico.
La famiglia, in particolare il padre e l'ambiente torinese in cui visse, furono determinanti per la sua formazione. Fu avviato ai primi studi sotto la guida di illustri precettori, tra i quali l'abate Magnin, un guelfo savoiardo, autore di Histoire de l'établissement de la réforme a Genève. Di lui l'Alfieri conservò particolare memoria, riconoscendogli il merito di averlo educato alle storie.
Cesare Balbo, Carlo Boncompagni erano assidui frequentatori della casa paterna. A vent'anni conobbe Massimo D'Azeglio che gli diede consigli per gli studi politici. L'incontro con Cavour fu fondamentale per la formazione del suo pensiero e per indirizzare la sua futura attività politica e sociale. Sulla rivista "Il Risorgimento", scrisse i suoi primi articoli e fu tra i firmatari nel 1847 della "Proposta di supplica al Re delle Due Sicilie dagli Italiani dell'Unione". L'intera redazione del quotidiano "Il Risorgimento" e Camillo Cavour "direttore, estensore in capo" supplicavano Ferdinando II di voler accedere alla politica di Pio IX, di Leopoldo, di Carlo Alberto, alla politica italiana, alla politica della Provvidenza, del perdono, della civiltà e della carità cristiana.
Del Cavour fu discepolo, professandosi le fidèle, le constant, l'invariable et passionné disciple et partisan, ma in dissenso da lui l'Alfieri perseguiva una fede liberale integrale e non consentiva deroghe al principio di applicare la libertà a tutti gli aspetti della società civile e religiosa.
Nella sua ricerca della via per elaborare una vera classe dirigente e definire i limiti fra politica e burocrazia trovò i suoi modelli nel costituzionalismo inglese e negli autori liberali francesi.
Nel discorso commemorativo pronunciato in Senato per la morte di Carlo Alfieri, Giuseppe Saredo dichiara: ... [questi] sostenne con instancabile attività i suoi convincimenti anche con .... l'esame personale nei frequenti suoi viaggi del modo di funzionamento delle istituzioni presso le principali nazioni di Europa e, in ispecie, la Svizzera, la Francia, il Belgio e l'Inghilterra.
Agli scrittori francesi, specialmente a quelli del periodo posteriore alla monarchia di luglio, si ispirò per le questioni educative ma soprattutto per il concetto di libertà e liberalismo. Ammirava il self government britannico e auspicava che il ceto politico italiano fosse ispirato ai principi britannici dell'autogoverno. Uno dei suoi riferimenti fu senz'altro il saggio sulla libertà di Stuart Mill.
E' lo stesso Carlo Alfieri a elencare con affettuosa riverenza i suoi maestri francesi nella sua pubblicazione L'insegnamento liberale della scienza di stato.
Attraverso François August Mignet, Victor Cousin, Hippolyte Taine, Adolphe Thiers, approfondì lo studio della rivoluzione francese, delle sue cause e dei suoi effetti. La lettura di questi autori, che ebbe modo di conoscere direttamente in occasione della sua prima visita a Parigi nel 1850, gli offrì la giustificazione storica del regime liberale.
Considerò suo maestro Jules Simon: sostenitore dei limiti dello stato, della pienezza dei diritti individuali nei confronti del potere politico, contro il regime cesarista di Napoleone III. Fu suo riferimento per la sua ispirazione "garantista": la sua opera "De la liberté de conscience" rappresentava il compendio del separatismo religioso, la base dottrinaria della "libera chiesa in libero stato".
Una profonda affinità di temperamento e di ideali legava Carlo Alfieri a Alexis De Tocqueville: la concezione della libertà allo stato puro, il modello di libertà religiosa realizzata in America, l'idea che la libertà dovesse essere anteposta all'indipendenza. Alfieri aveva letto "La democrazia in America" e accolse pienamente il modello americano esaltato dallo scrittore francese in materia di politica ecclesiastica.
In Édouard Laboulaye Alfieri vedeva sviluppati i principi già trovati nel Tocqueville e che rispondevano al suo temperamento di liberale puro: l'avversione allo stato tiranno, alla legge prevalente, e la fiducia, piuttosto, nell'educazione e nel costume, come nel saggio L'État et ses limites Alfieri si occupò direttamente della traduzione di opere del Laboulaye, tra cui "La separazione della Chiesa e dello Stato nella storia e legislazione degli Stati uniti d'America".
Grande affinità di intenti ebbe l'Alfieri con Émile Boutmy, fondatore nel 1872 della École libre des Sciences Politiques, da lui definito mon cher confrère. La scuola di Parigi fu un modello di riferimento per l'Alfieri, che con il Boutmy condivise la convinzione della necessità di preparare uomini di stato capaci di discutere le grandi questioni politiche e dirigere la pubblica opinione.
Nei suoi scritti si ritrovano i temi che animarono il dibattito politico pre e post unitario. Alfieri li affrontò sempre con passione rimanendo tenacemente ancorato agli ideali liberali e cattolici sui quali si era formato. A partire dai primi saggi fino alle ultime pubblicazioni degli anni ‘80 risulta infatti immutata la sua fede nella libertà, intesa come principio da applicare sempre e comunque sia in ambito civile che religioso. Un atteggiamento così intransigente che lo porterà a distinguersi perfino dallo stesso Cavour, che in alcune scelte gli sembrò condizionato dalle esigenze della convenienza politica.
… se il conte di Cavour avesse sacrificato quelle alleanze parlamentari alla tenerezza delle dottrine liberali, cui egli partecipava con noi, non avrebbe potuto sostituir loro altri elementi efficaci di azione per operare, come fece, il riscatto nazionale. (L’Italia liberale)
Le sue posizioni politiche rientrarono nell’area della destra moderata, ma in alcuni casi anche della destra più conservatrice, come egli stesso dichiarò firmandosi un conservatore al termine dell’opuscolo Avanti sempre, Savoia!
Nel dibattito che precedette la presa di Porta Pia fu fortemente contrario al culto di Roma capitale così caro invece alla sinistra. In accordo con il pensiero di D’Azeglio Roma non è che la capitale rettorica degl’Italiani, sostenne, senza successo, la necessità di prolungare almeno la permanenza della capitale a Firenze. Ai suoi occhi Roma rappresentava infatti l’emblema del cesarismo e dell’autoritarismo, vizi così innati nella natura dei popoli latini da ostacolare la formazione di un vero stato liberale.
Ma una volta che la scelta della capitale risultò definitiva, criticò l’assetto unitario del nuovo stato basato su un forte accentramento e auspicò, con una visione ancora oggi attuale, una riforma graduale basata invece sul decentramento e sull’autogoverno locale. Riteneva che fosse importante preservare le tradizioni storiche al fine di garantire il giusto equilibrio fra i localismi degli stati preunitari, ancora impregnati delle vecchie monarchie dispotiche, e il governo centrale. La sua fede liberale reclamava infatti la libertà per gli individui e per le istituzioni, così come dimostravano i modelli di self-governement attuati con successo nel Regno Unito e in Svizzera, dove popolazioni fra loro diverse convivevano pacificamente e prosperosamente.
Così per non allegare esempi se non irrefragabili, egli né evidentissimo che soltanto la libertà, la quale comporta il vero self-government, è capace di stringere in fascio delle popolazioni così disparate come quelle dell’Impero Brittanico; e di riuscire in uno stesso sentimento patriottico, in una fratellanza indissolubile dei confederati che rassomigliano tanto poco, quanto i cittadini dei Cantoni del Vallese o di Zurigo, di Ginevra o del Ticino (Di un concetto scientifico della moderna democrazia)
Ed infine proprio nel decentramento vedeva anche il possibile scioglimento della spinosa questione romana; da cattolico e liberale riteneva infatti necessario ridefinire i problematici rapporti tra Stato e Chiesa, ristabilire un equilibrio fra politica e religione, sempre nell’ambito del principio cavouriano: Libera Chiesa in libero Stato.
All’indomani del completamento dell’unificazione, in molti avvertirono la necessità di completare il Risorgimento costruendo l’unità degli italiani non solo dal punto di vista geografico e politico, ma anche culturale e morale.
Il tema fu espresso chiaramente da Massimo D’Azeglio:
Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani (I miei ricordi)
Alfieri lo riprese e lo declinò in una visione più “aristocratica”: all’educazione del popolo doveva essere anteposta la formazione della classe dirigente. Per l’Alfieri questa doveva comprendere gli uomini migliori dell’aristocrazia e della borghesia, le classi sociali che avevano concorso al processo risorgimentale e che ora avevano l’obbligo morale di condurre la nazione. Fra i primi denunciò infatti l’inadeguatezza dei politici italiani e facendo suo il giudizio del politico inglese Gladstone ritenne che il male peggiore dell’Italia fosse proprio l’inconsapevolezza e l’incapacità dimostrata dai suoi governanti.
Si racconta che allorquando il signor Gladstone ritornava nel 1867 dal viaggio in Italia, richiesto in Parigi del suo giudizio sulle condizioni finanziarie del nostro paese, rispondesse: “Lo stato delle cose nostre non gli sembrare così disperato, come molti lo facevano: una cosa tuttavia inquietare le sue simpatie ben note per l’Italia, ed era che, non il volgo soltanto, ma parecchi uomini politici non dimostrassero punto di rendersi un conto adeguato della gravità del male, dell’urgenza di rimediarvi, della qualità di mezzi che occorrevano” (Le idee liberali nel parlamento italiano: ricordi, timori e voti)
Da qui la necessità di istituire un corso di studi finalizzato proprio alla formazione di una nuova classe politica, che sapesse amministrare il paese, affrontando i problemi più urgenti quali la realizzazione delle opere pubbliche e l’istituzione dell’assistenza per le classi disagiate, sempre nel rispetto della proprietà privata e dell’ordine pubblico.
Il progetto di Carlo Alfieri di creare un “istituto per l’insegnamento delle scienze morali e politiche” fu presentato nel giugno del 1871 dinanzi ad una platea di personalità ed amici toscani per l’occasione convocati agli Uffizi, allora a disposizione del Senato del Regno. Ci si poneva il problema di riformare l’educazione superiore per garantire la formazione della classe dirigente italiana avendo come modello contemporanee esperienze europee. Firenze si candidava naturalmente quale sede dell’istituto, per le stesse ragioni che l’avevano designata capitale, ed inoltre per il fervore della vita politica e del dibattito intellettuale.
Ci si preoccupava di sviluppare, per l’educazione politica, un percorso formativo che fosse distinto dagli studi giuridici, a differenza di quanto stabilito dalla legge Casati del 1859, che includeva le scienze sociali nel curriculum delle scienze giuridiche.
A Firenze vi era già stato un tentativo di istituire studi sociali, a partire da un progetto sviluppato nel 1859 nell’ambito della redazione del quotidiano “Il Risorgimento italiano”, diretto da Achille Gennarelli. Il piano di insegnamento aveva carattere popolare e l’esperienza ebbe breve vita, concludendosi l’anno seguente per la cessazione della rivista e per la nascita dell’Istituto di Studi superiori (decreto Ricasoli), nucleo originario del futuro Ateneo.
Nel novembre 1871 Alfieri propose al consiglio comunale di inserire gli insegnamenti di scienze sociali nella Sezione di filosofia e filologia dell’Istituto di Studi superiori, ma la proposta di allargamento degli studi non fu accolta per ragioni di bilancio.
Esplorata senza esito la strada del sostegno pubblico, restava aperta quella dell’iniziativa privata. L’anno seguente veniva fondata con questo scopo la Società di Educazione liberale: all' interno il "comitato promotore per la fondazione e pel mantenimento di una Scuola di scienze sociali in Firenze" era composto da personalità toscane della destra moderata, disponibili a finanziare questa impresa culturale ed educativa. Tra i nomi eccellenti spiccano quelli di Pietro Bastogi, Luigi Ridolfi, Paris Maria Salvago Raggi, Leopoldo Galeotti, Odoardo Luchini, Ubaldino Peruzzi, Giovanni Guarini, Ludovico Incontri e Gino Capponi.
Le principali questioni che il Comitato fu chiamato da subito ad affrontare furono sia di ordine pratico, cioè strettamente connesse ai rapporti con gli enti locali e con l’Istituto di Studi superiori, che legate alla visione della scuola.
Sul fine ultimo per il quale essa nasceva si accese un intenso confronto che vedeva contrapporsi due tesi: la prima, sostenuta dall’Alfieri medesimo, e inizialmente vincente, concepiva la scuola come lo strumento di formazione per eccellenza dei giovani aristocratici, chiamati ad assumersi la responsabilità della direzione politica del Paese, indipendentemente dallo sbocco professionale. La seconda, rappresentata da Luigi Federico Menabrea, mirava invece al conferimento di un valore legale al titolo di studio rilasciato, in modo che la scuola rappresentasse un punto di riferimento per tutti coloro che intendevano avviarsi alla professione diplomatica e amministrativa.
Questa intensa fase preparatoria culminò nel 1875 con la presentazione ufficiale al Principe Umberto di Savoia dello Statuto della Società italiana di Educazione liberale e della Scuola di Scienze sociali.
Il 21 novembre dello stesso anno nella Sala del Buonumore resa disponibile dal R. Istituto di Studi superiori e di Perfezionamento presso l’attuale Conservatorio musicale Luigi Cherubini, il senatore Carlo Alfieri tenne il Discorso inaugurale della Scuola di Scienze sociali. Nel periodico Atti della Società italiana di Educazione liberale e della Scuola di Scienze sociali costituita in Firenze, 1876-1880, pubblicato nei primi quattro anni di vita della Scuola, sono contenuti i discorsi inaugurali, le relazioni del Collegio degli insegnanti e documenti relativi alla vita della Società.
Nel 1876, a chiusura del primo anno accademico, la Scuola mancava di una garanzia di finanziamento e di una sede. Carlo Alfieri tentò nuovamente la fusione con l’Istituto di Studi superiori, proponendo di adoperarsi col governo per procurare all’Istituto (e alla Scuola) la disponibilità del Palazzo della Crocetta, in via Laura, e offrendo un assegno annuo di mantenimento da parte della Società di educazione liberale. Ma anche questo tentativo rimase senza effetto. A distanza di un anno il Nostro riuscì ad ottenere comunque l’edificio di via Laura assieme alla Scuola di giurisprudenza, finanziata dal Comune e dalla Provincia di Firenze, scuola che abilitava alla professione notarile. A partire dal 1879-80 si definì un accordo secondo cui i corsi della Scuola di giurisprudenza potevano essere seguiti anche dagli studenti della Scuola di Scienze sociali, pagando tasse più modeste. Ciò consentì di alleggerire i costi, che continuavano a gravare principalmente sulle finanze personali dell’Alfieri.
Nel 1878 il Consiglio direttivo stipulò una convenzione rilevante per l’assetto della Scuola, cointeressando gli insegnanti alla gestione economica e agli utili, pubblicata nel periodico Atti della Società di educazione liberale, Firenze 1879. Nel 1885 all’interno della Scuola venne istituita la Sezione di Ragioneria Sperimentale. Il R.D. 27 settembre 1887 riconobbe infine ai diplomati l'ammissione ai concorsi per le carriere del Ministero degli Esteri. L’anno successivo, grazie proprio al riconoscimento del titolo, la Scuola poté contare sul contributo finanziario del Comune e della Provincia. Con R.D. 24 maggio 1888 la Scuola si trasformava infine in R. Istituto di Scienze Sociali assumendo il nome di “Cesare Alfieri”. La Scuola aveva già ricevuto apprezzamento e riconoscimenti: ne è documento il diploma d’onore conferitole in occasione dell’esposizione nazionale di Torino del 1884.
La Scuola fu aperta con otto insegnamenti: diritto naturale, istituzioni di diritto romano, economia sociale, diritto costituzionale e storia delle costituzioni, diritto amministrativo e scienza dell'amministrazione, diritto internazionale e storia delle relazioni internazionali, diritto penale e procedura penale, diritto commerciale. A questi, ripartiti in un corso di tre anni, furono aggiunti più tardi: statistica, scienza delle finanze, codice e procedura penale e, a partire dall'anno accademico 1879-1880, contabilità di Stato, come insegnamento autonomo.
Il corpo docente, tutto di nomi illustri, riconosciuti idonei dal governo, annoverò in principio personalità del calibro di Pasquale Villari, autore, tra l'altro, di un volume di scritti pedagogici volti a promuovere la causa del pubblico insegnamento in Italia, e Augusto Conti, patriota ed erudito molto rispettato nella Firenze del tempo. A questi si aggiunsero, negli anni, Domenico Zanichelli, docente di diritto costituzionale e di storia delle costituzioni, Odoardo Luchini, penalista di buon successo e oratore molto abile, Luigi Laffrichi e Gaetano Pini, docente di diritto civile nell'anno scolastico 1885-1886.
Il numero degli studenti iscritti, giovani aristocratici appartenenti a 41 provincie d'Italia avviati alla carriera diplomatica e a quella amministrativa, fu di 14 unità il primo anno, 22 il secondo e 30 il terzo. Grandi numeri mai se ne ebbero: anzi lo Statuto stesso sanciva che gli iscritti non dovessero essere più di cento, per consentire ai professori di accertarsi personalmente del profitto dei giovani loro affidati.
Gli studenti, dal canto loro, anche dopo l'ingresso nella vita professionale, serbavano vivo il ricordo della Scuola frequentata e degli insegnamenti ricevuti in gioventù e non mancavano di dedicarle i propri lavori con stima e deferente omaggio. A conclusione del primo ciclo di studi alcune tesi furono giudicate degne di pubblicazione. Tra queste, quelle di Raffaele Fornasini e Giuseppe Panerai, il primo divenuto nello stesso anno (1878) addetto alla segreteria della "Commissione d'inchiesta sulle ferrovie" e il secondo ammesso alla carriera diplomatica e segretario in varie ambasciate.
Nel 1882 il R. Ministero dell'Interno decretò l'equiparazione del diploma alla laurea in giurisprudenza per i concorsi alle carriere superiori dell'amministrazione centrale e delle prefetture, a condizione che gli alunni fossero forniti del diploma di licenza liceale e riportassero il plauso nell'esame di tesi; nel 1887 il R. Ministero degli Esteri equiparò il diploma alla laurea in giurisprudenza per tutte le carriere dipendenti dal Ministero stesso (legazioni, consolati, uffici interni del Ministero).
Il 24 maggio 1888 la Scuola divenne Istituto e l'evento fu salutato dalla Rassegna di Scienze Sociali e politiche, quindicinale di problemi economici e sociali, fondato cinque anni prima da due ex allievi meritevoli, Carlo Ridolfi e Guido Rossi.
Progettazione e realizzazione grafica, digitalizzazioni e allestimento della mostra virtuale:
Francesca Palareti
Progetto delle sezioni, selezione dei materiali e testi: Francesca Carletti, Alessandra Cassigoli, Eleonora Giusti, Laura Magni
Ultimo aggiornamento
25.10.2024